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Occupazione di immobile senza titolo e conseguenze dannose. Risarcimento da danno in re ipsa?

Cassazione, SSUU n. 33645 del 2022

Per la giurisprudenza della Seconda sezione, il diritto di proprietà, come ogni diritto reale su cose, è connotato da differenziazione tra contenuto e oggetto. Perciò, a seguito di occupazione senza titolo di immobile, il proprietario che non può godere del bene subisce un danno emergente “presunto o tendenzialmente normale”, da liquidare in via equitativa in base al valore di mercato del canone dell’ eventuale contratto di locazione che avrebbe stipulato ( senza dover dimostrare che lo avrebbe stipulato)-teoria normativa del danno- Non si tratta dunque di risarcimento da mero danno evento ( danno in re ipsa) , ma di conseguenze dannose esistenti e semplicemente presunte per la natura del diritto violato.

Per la Terza sezione, di converso, non possono esistere danni in re ipsa. Sia per i diritti della persona che per quelli reali, non basta il danno evento, ma servono le conseguenze dannose. Senza conseguenze dannose non si può risarcire nulla, qualunque sia la posizione meritevole di tutela violata. I pregiudizi effettivi vanno dimostrati comunque, anche ricorrendo a presunzioni ( allegando cioè i fatti che possano far presumere, nel caso di specie, che il proprietario di immobile occupato senza titolo avrebbe locato lo stesso)- teoria causale del danno-

Le SSUU in commento, nel risolvere il contrasto,  hanno affermato i seguenti principi:

nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato”.

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Condominio: legittimazione attiva, artt.115 e 116 c.p.c, appalto.

Cassazione, Sezione VI, ordinanza del 17 novembre 2022 n. 33919

Una società, che aveva stipulato un contratto di appalto con un condominio, otteneva due decreti ingiuntivi per mancato pagamento del corrispettivo. Il condominio si opponeva e vedeva accolta la sua pretesa dal tribunale. La decisione del Tribunale veniva confermata in appello. Per tale ragione la società ricorreva in Cassazione per sei motivi ( qui se ne descriveranno tre).

Con il primo motivo, la ricorrente lamentava il difetto di legittimazione attiva del condominio ( artt. 1130 e 1131 cc.). Mentre i decreti ingiuntivi erano stati notificati al geometra firmatario del contratto di appalto (cioè a colui che presenziava fisicamente alle assemblee) la citazione in opposizione del Condominio, invece, era stata proposta da una S.a.s. di cui la persona fisica suddetta risultava essere il rappresentante legale e socio accomandatario.

In pratica, per la società appaltatrice ricorrente in Cassazione, l’amministratore del condominio era il geometra persona fisica e non la società, a nulla rilevando che il soggetto fosse il rappresentante legale.

La Cassazione ritiene il primo motivo infondato. Dall’analisi delle delibere fatta dal giudice di merito (tra l’altro insindacabile in sede di legittimità) risultava che formalmente l’amministratore del condominio fosse proprio la società, la quale perciò era ben legittimata ad opporsi ( con ciò forse intendendo implicitamente che l’errore fu del ricorrente stesso, il quale notificò, di converso, i provvedimenti monitori al legale rappresentante). A nulla rileva, sostiene la suprema Corte, che il geometra partecipasse alle assemblee ( poiché una persona fisica è necessaria) e che avesse stipulato lui stesso il contratto ( in quanto rappresentante legale della società amministratrice).

Con il terzo motivo il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. Nel dettaglio, la corte di Appello avrebbe trascurato alcune prove in favore di altre.

La Suprema Corte non accoglie neanche la terza doglianza, poiché, per costante giurisprudenza, la violazione dell’art. 115 c.p.c. si realizza quando il giudice pone a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti ( salvi i fatti non contestati e il fatto notorio). Diversamente, non si ha violazione della norma quando egli si limita a ritenere alcune prove allegate più convincenti rispetto ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. ( naturalmente motivando il proprio convincimento).

Con il quarto motivo la società ricorrente lamentava la falsa applicazione dell’art. 1453 c.c. ( risoluzione del contratto) , poiché il giudice di merito aveva riconosciuto la gravità dell’inadempimento ( art. 1455 c.c.) con conseguente risoluzione del contratto di appalto ( il ricorrente lamentava che i lavori non svolti /contestati configuravano solo il 25% di quelli eseguiti).

Per i giudici di legittimità, la quarta censura è inammissibile, visto che in materia di responsabilità contrattuale la valutazione della gravità dell’inadempimento, ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive ai sensi dell’art. 1455 c.c., costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito e non è sindacabile in sede di legittimità (Sez. 2, n. 12182 del 22 giugno 2020);

In virtù di quanto esposto e per altre ragioni, la Suprema Corte rigetta il ricorso, condanna il soccombente al pagamento delle spese di lite e al versamento del doppio del contributo unificato.

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Testimonianza, ammessa e assunta, resa da persona incapace perché interessata : nullità o inefficacia?

Per l’orientamento dominante e consolidato, affermato per la prima volta nel 1990 ( Cass.civ. Sez. II, n. 7869/1990), la testimonianza resa da persona incapace, in quanto portatrice di un interesse che potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio, è nulla .

Si tratta di nullità relativa, che la parte deve eccepire ( senza potere del giudice di rilevarla d’ufficio) subito dopo l’espletamento della prova o al massimo nell’ udienza successiva ( qualora il difensore non sia stato presente all’assunzione della testimonianza). In mancanza della suddetta tempestiva eccezione, la nullità è sanata.

Nondimeno, per una tesi dottrinale minoritaria, le dichiarazioni rese da testimone incapace in quanto ” interessato” , sono inefficaci, non nulle. Ne consegue, in primo luogo, che le stesse non sono utilizzabili. Inoltre viene meno la necessità di eccepire il vizio immediatamente o alla prima udienza successiva. E’ sufficiente ” stimolare ” il Giudice sulla questione, precisandola nelle conclusioni.

Con la pronuncia in esame la Suprema Corte rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale trasmissione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374, 2 comma, cpc ( in quanto questione di massima importanza e con qualche difformità nell’orientamento dominante). Il tutto per valutare se il principio descritto ( in virtù del quale la testimonianza è nulla e va eccepita tempestivamente al momento dell’assunzione o nella prima udienza successiva) sia ancora attuale.

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E’ sufficiente il decreto di esproprio per far perdere il possesso del bene al soggetto espropriato?

Cassazione, ordinanza n. 19758 del 20 giugno 2022

Con la pronuncia in esame si analizza la questione se sia sufficiente, o meno, il Decreto di Esproprio di un bene da parte della pubblica amministrazione(finalizzato a realizzare, in una determinata aerea, un’opera pubblica) al fine di far perdere l’animus possidendi in capo all’occupante, con conseguente degradazione della sua posizione da possesso a detenzione.

Secondo un primo orientamento è sufficiente la notificazione ( o comunque l’avvenuta conoscenza) del provvedimento di esproprio del bene per far perdere all’occupante il possesso dello stesso. La conclusione vale sia nel caso che l’amministrazione abbia compiuto attività materiale, sia nell’eventualità che essa sia rimasta inerte ( con il bene, dunque, nella disponibilità materiale dell’occupante) almeno per il tempo necessario alla realizzazione dell’opera pubblica oggetto del procedimento espropriativo. Ne consegue che sarà necessario un atto di interversione del possesso dell’espropriato per “rigenerare” la sua detenzione in nuovo possesso il quale, se protratto per 20 anni, permetterà l’acquisto originario della proprietà per usucapione.

In virtù di una secondo indirizzo giurisprudenziale, di converso, non è sufficiente il decreto di esproprio e la sua notificazione , in quanto il provvedimento ablativo non determina di per sé la perdita dell‘animus possidendi in capo al soggetto espropriato, qualora non segua al decreto l’ attività materiale dell’amministrazione ( cioè l’attuazione dell’intervento di pubblica utilità a cui il procedimento è finalizzato).

Ciò vuol dire che il soggetto espropriato non perde il possesso del bene in presenza del mero decreto di esproprio, con la conseguenza che se egli rimane nel possesso ventennale del bene potrà riacquisire la proprietà, senza necessità di atti di interversione. E’ invece l’amministrazione, nuova proprietaria del bene, che dovrà compiere un atto concreto tale da sterilizzare l’animus possidendi dell’occupante, non potendo beneficiare della propria inerzia.

D’altronde l’art. 52 della legge fondamentale sull’espropriazione per pubblica utilità ( n. 2359 del 1865) applicabile ratione temporis alla fattispecie, prevedeva, relativamente agli effetti dell’espropriazione sui terzi, azioni reali ( es. rivendica) ma non tutela possessoria ( evidentemente confermando che il procedimento espropriativo, che culmina con il decreto di esproprio, non incide sul possesso).

Con l’ordinanza suddetta, la Seconda Sezione civile ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, la questione descritta visto il contrasto interpretativo sussistente.

Tabelle millesimali: per la modifica serve la maggioranza qualificata o l’unanimità dei condomini?

Cassazione civile, Sezione II, ordinanza n. 13024 del 26 aprile 2022

Un condominio otteneva decreto ingiuntivo per il mancato pagamento di oneri condominiali.

Alcuni condomini si opponevano al decreto ingiuntivo, ottenendone revoca, in quanto le spese sarebbero state fondate su tabelle millesimali inesistenti, perché non approvate all’unanimità dall’assemblea dei condomini, come prescritto dalla legge.

La sentenza veniva impugnata in Corte di Appello, la quale ultima riformava la sentenza e per l’effetto confermava il decreto ingiuntivo chiesto originariamente dal Condominio. La ragione sarebbe la natura non contrattuale delle tabelle ( in quanto non allegate al rogito e non predisposte dal costruttore), con la conseguente possibilità della modifica con la maggioranza qualificata ex. art. 1136 c.c. ( maggioranza degli intervenuti rappresentanti oltre la metà del valore complessivo), senza necessità dell’unanimità. Inoltre, anche se le tabelle avessero avuto natura contrattuale, recentemente la Cassazione ( sent. 2010 n. 18477) ha escluso la nullità delle tabelle se manca il consenso unanime dei condomini

I condomini allora ricorrono in Cassazione, la quale, nonostante il ricorso sia inammissibile, conferma quanto sostenuto dalla Corte di Appello. Nel dettaglio ciò che conta per comprendere il quorum necessario per la modifica, è la conferma o la deroga dei criteri di ripartizione delle spese previsti dall’art. 1123 c.c. Se le tabelle sono meramente ricognitive dei criteri stabiliti dalla legge, per approvarle e per modificarle basta la maggioranza suddetta. Di converso se le tabelle derogano ai criteri legali di ripartizione , occorre l’unanimità, in quanto assumono natura contrattuale ( rappresentano, cioè, la “diversa convenzione” rispetto a quanto previsto dall’art. 1123 c.c.).

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Scolo delle acque sul fondo del vicino a causa del rifacimento del tetto. E’ possibile? Solo in presenza di servitù di stillicidio

Tribunale di Milano, IV sezione, sent. n. 3305 del 13/04/2022

L’ art. 913 del codice civile prevede che: “il fondo inferiore è soggetto a ricevere le acque che dal fondo più elevato scorrono naturalmente, senza che sia intervenuta l’opera dell’uomo e il proprietario del fondo inferiore non può impedire questo scolo

Diversamente se si compiono opere che comportino una alterazione del deflusso delle acque, la norma suddetta non può trovare applicazione, e a quel punto il proprietario del fondo inferiore non deve tollerare lo scolo. In fin dei conti la conclusione è specificata dall’art. 908 c.c. in riferimento al tetto, dove è previsto che il proprietario deve costruire i tetti in maniera che le acque piovane scolino sul suo terreno e non sul fondo del vicino.

La disposizione ( che si inquadra nel regime dei rapporti di vicinato) non impone particolari pendenze del tetto o altre forme di copertura ( ad esempio il lastrico o la terrazza), l’importante è che le acque non scolino nel fondo altrui ( utilizzando magari canali, gronde, etc).

Nel caso oggetto della pronuncia del Tribunale di Milano, il convenuto ha costruito un tetto alla “francese”, con lastre disposte a “losanga” con scolo illegittimo sul fondo dell’attore, determinato da una esorbitanza della copertura di tal guisa realizzata.

Il danneggiato ( attore) perciò ha citato in giudizio il proprietario che ha rifatto la copertura( convenuto), con ordinaria azione negatoria (art. 949 c.c.)al fine di negare qualsiasi diritto altrui sul bene proprio ( il convenuto affermava la sussistenza di una servitù di stillicidio o di scolo).

Il Tribunale accoglie la domanda dell’attore e condanna il convenuto all’eliminazione dello scolo sul fondo dell’attore.

Ne consegue che, in presenza di scolo delle acque che non sia naturale ma conseguenza di opere o interventi umani, è fatto divieto al proprietario di un fondo di far cadere l’acqua sul fondo vicino ex art. 908 c.c., salvo che egli dimostri l’esistenza di un “peso” gravante sul fondo vicino, ovvero di una servitù di stillicidio o scolo.

Cartella di pagamento e motivazione: computo degli interessi criptico e non comprensibile(Cass., Sez. V, ord. 05/11/2021 n. 31960)

Alcuni contribuenti impugnavano dinanzi alla Commissione tributaria una cartella di pagamento avente a oggetto la richiesta di 55.343,22 euro. Il ricorso veniva respinto sul presupposto che la cartella fosse adeguatamente motivata anche con riferimento agli interessi, previsti al tasso legale. Contro tale provvedimento i contribuenti ricorrono in Cassazione.

Riassumendo, si possono ravvisare due orientamenti relativi al computo degli interessi in cartella.

In virtù di una prima tesi della giurisprudenza di legittimità, qualora siano previsti interessi ex lege, sia incontestata e pacifica la somma capitale e sia certo il periodo in cui sono maturati gli interessi, la cartella si può definire adeguatamente motivata, anche se in essa non vi è alcun riferimento ai criteri adottati per il calcolo degli interessi. Ciò in quanto è sufficiente una mera operazione aritmetica da parte del contribuente, già a conoscenza dei presupposti di fatto e giuridici alla base( grazie al richiamo, contenuto nella cartella, all’atto impositivo definitivo). L’ operazione aritmetica è inoltre facilitata dai decreti ministeriali che annualmente determinano la misura degli interessi, oppure dall’ ultimo decreto utile, qualora il nuovo non venga emanato.

Di converso per altro orientamento a nulla rileva la conoscenza del contribuente dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa fiscale( somma capitale, periodo di riferimento degli interessi etc.) quando una voce del credito ( cioè gli interessi) è per la prima volta richiesta in cartella . In tale eventualità nella cartella vanno indicati i criteri di calcolo seguiti, in modo che il contribuente possa verificare la correttezza dell’operazione di calcolo fatta dall’amministrazione finanziaria ( ecco la motivazione). Ne consegue che non può esserci il solo riferimento alla cifra globale degli interessi dovuti senza spiegare come si è giunti a tale calcolo , specificando le singole aliquote prese a base delle annualità. Se tale percorso difetta, il calcolo degli interessi è “criptico e non comprensibile” e , di conseguenza, diventa criptica e non comprensibile anche la motivazione.

Con l’ordinanza in esame la Suprema Corte rimette la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, al fine dell’emanazione di un principio di diritto che risolva il suddetto contrasto sorto in seno alla giurisprudenza, visto che la questione è destinata a riproporsi in numerose controversie

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Sicurezza stradale: ciclisti e veicoli

Quali sono le norme e gli accorgimenti che ciclisti e conducenti di veicoli devono adottare quando interagiscono tra loro?

CICLISTI: in virtù dell’art. 182 del Codice della Strada, i ciclisti devono procedere su unica fila in tutti i casi in cui le condizioni della circolazione lo richiedano e, comunque, mai affiancati in numero superiore a due; quando circolano fuori dai centri abitati devono sempre procedere su unica fila, salvo che uno di essi sia minore di anni dieci e proceda sulla destra dell’altro.

VEICOLI: dal punto di vista legislativo non sussiste una norma che imponga una precisa distanza tra un veicolo e il ciclista al lato, ma soltanto una proposta di inserimento ( comma 2 bis dell’art. 149 del Codice della Strada) di una norma che preveda una distanza di almeno un metro e cinquanta centimetri ( 1, 50 metri ), così come avviene in Spagna, Austria, Irlanda e Giappone.

Tuttavia la giurisprudenza precisa che :nel sorpassare velocipedi e motocicli, aventi un equilibrio particolarmente instabile, il conducente deve lasciare una distanza laterale di sicurezza che tenga conto delle oscillazioni e deviazioni che le accidentalità della strada o altre cause possano rendere più o meno ampie nel veicolo sorpassato. Altrimenti il conducente è tenuto a rinunciare al sorpasso” ( Cass. penale, IV sez.. sent. n. 548/2019) ; inoltre: “ l’art. 106 C.d.S., comma 1, in tema di sorpasso, richiede “spazio libero sufficiente” inteso non soltanto alla distanza che separa il conducente da eventuali ostacoli nell’opposta corsia di marcia, ma anche dalla distanza laterale dalla sinistra del veicolo da sorpassare, che deve essere adeguata, nel caso detto spazio manchi deve desistere dalla manovra“. (Cass. civile, sent. del 24 ottobre n. 31009)

Sequestro di dati informatici ( Cassazione Penale Sez. VI, sent, n. 34265 del 22 settembre 2020)

I dati informatici sono particolari, in quanto a forte rischio alterazione e, soprattutto, potenziale fonte di moltissime informazioni anche super sensibili della persona. La Cassazione, per garantire la non alterazione in presenza di sequestro disposto dal PM e la pertinenza rispetto al reato, ha stabilito che va fatto un duplicato informatico integrale dell’hard disk , garantendone la non modificabilità ( non serve il supporto originario- es. pc. tablet, cellualre, etc- poiché ciò che serve è il dato. Ragion per cui una volta fatta tale copia, il supporto originario va restituito al proprietario).

Inoltre, il Pubblico Ministero: non può trattenere la suddetta copia integrale dei dati appresi se non per il tempo strettamente necessario alla loro selezione; è tenuto a predisporre una adeguata organizzazione per compiere la selezione in questione nel tempo più breve possibile, soprattutto nel caso in cui i dati siano stati sequestrati a persone estranee al reato per cui si procede; compiute le operazioni di selezione, la c.d. copia – integrale deve essere restituita agli aventi diritto. Difatti tale copia, piena di tutte le informazioni pertinenti (e non )al reato, deve essere il mezzo e non il fine dell’ accertamento del reato, il quale si deve basare solo su quanto necessario. Evidentemente si vuole evitare che le informazioni “estranee” siano trattenute per cercare nuovi reati.

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Riconoscimento in Italia della pronuncia USA che condanna l’Irak al risarcimento in favore di alcune vittime americane dell’attacco alle Torri Gemelle.

Può una pronuncia di un giudice di uno Stato affermare la responsabilità civile di un altro Stato? La stessa sentenza può essere riconosciuta nel nostro Paese? La Cassazione sterilizza l’ostacolo ” di principio” dato dall’immunita’ di uno Stato, che non può operare senza limiti e quando di mezzo ci siano i diritti fondamentali delle persone. ( Cassazione civile, I sezione, ordinanza n. 39391 di dicembre 2021)

Il diritto internazionale consuetudinario afferma il principio dell’immunità di uno Stato dalla giurisdizione civile di un altro Stato. Il fatto che tale principio sia previsto da una norma internazionale consuetudinaria, significa che prevale anche sulle singole disposizioni della nostra Costituzione, salvo che non contrasti con diritti e libertà fondamentali della persona (c.d controlimiti).

Nel dettaglio, la Corte federale distrettuale dello Stato di New york ha condannato con sentenza l’Irak al risarcimento danni nei confronti di cittadini americani( a seguito dell’attentato alle Torri gemelle), considerando il Paese in questione sponsor del terrorismo. Di tale sentenza veniva chiesto il riconoscimento in Italia da parte degli eredi di alcune vittime del medesimo attacco.

La Corte d’ Appello di Roma ha negato il riconoscimento, poiché la pronuncia americana violerebbe il suddetto principio dell’immunità di uno Stato dalla giurisdizione civile di un altro Stato, ponendosi inoltre contro l’ordine pubblico, in quanto riconoscerebbe i c.d. danni punitivi ( ovvero fondati sull’assenza di accertamento concreto delle conseguenze dannose, in ossequio a una funzione compensativa e sanzionatoria della responsabilità civile).

La Suprema Corte cassa la sentenza della Corte d’ Appello con rinvio, per le seguenti ragioni:

  • Il principio di immunità di uno Stato dalla giurisdizione di un altro Stato, non è un diritto, ma una prerogativa limitata dall’altrettanto internazionale e riconosciuto principio della tutela dei valori e dei diritti fondamentali della persona. Perciò anche dove operante l’immunità ( ovvero solo in presenza di attività iure imperii dello Stato ), essa trova il limite invalicabile nei delitti contro l’umanità e comunque nei crimini contro le persone, che nulla hanno a che vedere con le decisioni politiche.
  • Al fine del riconoscimento della sentenza straniera occorre valutare soltanto che il giudice avrebbe potuto conoscere della causa anche in base ai principi dell’ordinamento italiano ,che siano stati garantiti i diritti processuali fondamentali ( es, il contraddittorio), a nulla rilevando il merito/contenuto della decisione ( ovvero l’accertamento in concreto della responsabilità) e che gli effetti della sentenza non vadano contro l’ordine pubblico italiano.
  • Proprio in relazione a quest’ultimo ultimo punto, precisa la Corte di Cassazione che i danni punitivi non sarebbero ontologicamente e in astratto incompatibili con l’ordinamento italiano, seppur con alcuni limiti.

La Corte di Appello di Roma dovrà perciò accertare se la sentenza USA abbia rispettato i diritti processuali fondamentali ( nel caso di specie il contraddittorio) e se la condanna al risarcimento “punitivo” si sia basata sulla tipicità delle ipotesi di condanna e sulla prevedibilità della stessa.

La Cassazione, dunque, apre le porte alla condanna di uno Stato per responsabilità civile da parte di altro Stato, o perlomeno sterilizza, a mio parere, l’ostacolo ” di principio” dato dall’immunita’, che non può operare senza limiti e quando di mezzo ci sia la vita delle persone.

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