Cassazione, Sezione VI, ordinanza del 17 novembre 2022 n. 33919
Una società, che aveva stipulato un contratto di appalto con un condominio, otteneva due decreti ingiuntivi per mancato pagamento del corrispettivo. Il condominio si opponeva e vedeva accolta la sua pretesa dal tribunale. La decisione del Tribunale veniva confermata in appello. Per tale ragione la società ricorreva in Cassazione per sei motivi ( qui se ne descriveranno tre).
Con il primo motivo, la ricorrente lamentava il difetto di legittimazione attiva del condominio ( artt. 1130 e 1131 cc.). Mentre i decreti ingiuntivi erano stati notificati al geometra firmatario del contratto di appalto (cioè a colui che presenziava fisicamente alle assemblee) la citazione in opposizione del Condominio, invece, era stata proposta da una S.a.s. di cui la persona fisica suddetta risultava essere il rappresentante legale e socio accomandatario.
In pratica, per la società appaltatrice ricorrente in Cassazione, l’amministratore del condominio era il geometra persona fisica e non la società, a nulla rilevando che il soggetto fosse il rappresentante legale.
La Cassazione ritiene il primo motivo infondato. Dall’analisi delle delibere fatta dal giudice di merito (tra l’altro insindacabile in sede di legittimità) risultava che formalmente l’amministratore del condominio fosse proprio la società, la quale perciò era ben legittimata ad opporsi ( con ciò forse intendendo implicitamente che l’errore fu del ricorrente stesso, il quale notificò, di converso, i provvedimenti monitori al legale rappresentante). A nulla rileva, sostiene la suprema Corte, che il geometra partecipasse alle assemblee ( poiché una persona fisica è necessaria) e che avesse stipulato lui stesso il contratto ( in quanto rappresentante legale della società amministratrice).
Con il terzo motivo il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. Nel dettaglio, la corte di Appello avrebbe trascurato alcune prove in favore di altre.
La Suprema Corte non accoglie neanche la terza doglianza, poiché, per costante giurisprudenza, la violazione dell’art. 115 c.p.c. si realizza quando il giudice pone a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti ( salvi i fatti non contestati e il fatto notorio). Diversamente, non si ha violazione della norma quando egli si limita a ritenere alcune prove allegate più convincenti rispetto ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. ( naturalmente motivando il proprio convincimento).
Con il quarto motivo la società ricorrente lamentava la falsa applicazione dell’art. 1453 c.c. ( risoluzione del contratto) , poiché il giudice di merito aveva riconosciuto la gravità dell’inadempimento ( art. 1455 c.c.) con conseguente risoluzione del contratto di appalto ( il ricorrente lamentava che i lavori non svolti /contestati configuravano solo il 25% di quelli eseguiti).
Per i giudici di legittimità, la quarta censura è inammissibile, visto che in materia di responsabilità contrattuale la valutazione della gravità dell’inadempimento, ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive ai sensi dell’art. 1455 c.c., costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito e non è sindacabile in sede di legittimità (Sez. 2, n. 12182 del 22 giugno 2020);
In virtù di quanto esposto e per altre ragioni, la Suprema Corte rigetta il ricorso, condanna il soccombente al pagamento delle spese di lite e al versamento del doppio del contributo unificato.
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